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Libero di volare: Vincenzo D’Amico, il ragazzino diventato aquila

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Vincenzo D'Amico in primo piano

Se n’è andato un figlio, un fratello, il migliore amico. Se n’è andato il simbolo di un’era. Se n’è andato un altro labaro di lazialità. Se n’è andato colui che del bianco e celeste aveva fatto una corazza, dell’aquila un’insegna. Se n’è andato chi, come Tommaso Maestrelli, Giorgio Chinaglia, Stefano Re Cecconi, Mario Frustalupi, Felice Pulici e Pino Wilson, portò la Lazio per la prima volta sul tetto d’Italia. Se n’è andato Vincenzo D’Amico, innamorato del calcio, talento libero da condizionamenti, monumento di un’epoca calcistica che vive tra le pagine ingiallite dei libri di storia e i ricordi un po’ sbiaditi che si tuffano nella leggenda.

Addio a Vincenzo D’Amico: libero, indisciplinato, laziale

“Vincenzino” è cresciuto garzone e divenuto eroe. Non ha rispettato il ticchettio del tempo, né le gerarchie. Nella capitale ha sempre indossato il mantello. Da altre parti si è limitato a concedere calcio come e quando voleva. D’altronde è stato sempre un indisciplinato, sia in campo sia nella vita. Ragion per cui, da subito, i tifosi della Lazio lo hanno eletto a idolo incontrastato. Una bandiera al vento in anni particolari, con le nuove generazioni che desideravano liberarsi dalle briglie delle precedenti. Tra una canzone di Lucio Battisti e uno sguardo alla Roma di allora, colorata dal nero del piombo e dal bianco marmoreo dei gradoni dell’Olimpico, D’Amico ha dribblato le convenzioni e si è preso tutto. Sregolato, libero da catene e regole, Vincenzo ha saputo farsi apprezzare come uomo, non solo per il talento cristallino che metteva in campo.

Del resto la gloria non arriva subitanea, ma resta in eterno. Fa specie pensare al 2014, a “Di Padre in Figlio”. Erano passati quarant’anni dallo Scudetto. E almeno una generazione di laziali. Eppure lì, sugli spalti gremiti, accanto alle magliette di Nesta, di Klose, di Gascoigne e Chinaglia, c’era anche la sua. Numero 11, talvolta 14 e talaltra 10: D’Amico non è stato un passaggio banale, bensì un dribbling istintivo, veloce, efficace. Per sedici anni ha difeso il biancoceleste. Dal 1971 al 1986 è stato sinonimo di Lazio, mettendo a referto 336 presenze e la bellezza di 49 gol.

Impossibile dimenticare la prima rete nel derby con la Roma, il premio di miglior giovane del campionato oppure la scelta di difendere i colori laziali anche in Serie B. Tuttavia, portare di D’Amico solo il parlato calcistico sarebbe riduttivo. Già al primo giorno di vita, il golden boy biancoceleste fece notizia. Nato a Latina il 5 novembre 1954, il padre lo iscrisse all’anagrafe il giorno successivo. Un episodio singolare, al quale nel corso degli anni ne seguirono altri. Ci fu una volta, ad esempio, che Chinaglia gli diede un calcio nel sedere perché, a suo dire, non si stava impegnando abbastanza. E ancora: diede addio alla Nazionale Italiana dopo non esser stato impiegato da Enzo Bearzot in due amichevoli.

Inevitabile, infine, ricordare il pianto a dirotto nel quale cadde quando nell’estate 1980 la società, retrocessa a tavolino e in difficoltà economica, decise di venderlo al Torino. Allora, solo un anno dopo, scelse di tornare. Oggi che se n’è andato per sempre, invece, siamo sicuri che mai abbandonerà la sua Lazio. E tifosi lo ricorderanno per sempre. “Vincenzino”, il “Golden-boy”, il ragazzino che cosparse di magia una squadra incredibile e segnata dal destino.

Daniele Izzo

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